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Una gita da mediano
di Matteo Mazzantini

Belìn, c'è un uomo che sta bruciando

Canberra, 14 ottobre 2003

In macchina: Giacomo Mazzocchi, capo dell'ufficio stampa, e Marco Bollesan, general manager.
Mazzocchi al volante, Bollesan di fianco.
Poi Mazzocchi svolta, è soprappensiero, dimentica che qui la guida è a sinistra, e imbocca la strada come al solito, sulla destra. Dall'altra parte arriva una jeep.
Risultato: un bel frontale e macchina distrutta e fumante, quella di Mazzocchi e Bollesan. Per fortuna scattano gli air bag.
Per sfortuna, quello di Bollesan s'incendia. Bollesan fa per uscire, ma la porta è bloccata, allora si ricorda di essere stato un terza centro, dà una gomitata, sfonda il vetro ed evade dal finestrino.
Fa cinque passi per mettersi in salvo, poi si dice: "Belìn, ma qui c'è un uomo che sta bruciando". Mazzocchi.
Torna sui suoi passi e come Rambo, o Superman, lo salva dalle fiamme.
Incredibile quello che s'inventano i nostri dirigenti per non farci mai annoiare, anche se il giorno prima della partita cerchi di stare il più possibile tranquillo.
Sveglia alle 9 e mezzo, colazione, allenamento a mezzogiorno, titolari contro riserve, le riserve fanno opposizione.
Ci siamo allenati nello stadio dove giocheremo domani: a Canberra, immerso in un bosco dove le riunioni di condominio sono fatte tra koala, stavolta il campo ha come tetto un cielo di nuvole o di stelle, assomiglia al Flaminio, forse un po' più basso, ma con gli stessi spettatori. Come numero, non come facce.
E qui torneremo stasera, per controllare le condizioni di umidità e scegliere i tacchetti.
Dei tongani so poco o niente.
Conosco di vista tal Willie, che gioca a Parma come trequarti ala, invece in Nazionale come seconda o terza linea.
E' gente che spinge, che in touche gioca stretto, che attacca di fisico, con l'estremo e le ali che tagliano, e nessuno di loro si tira indietro. Anzi: tirano avanti. E se c'è da menare, menano.
Le isole Tonga saranno centocinquanta, piatte, incontaminate, spettacolari.
Dovevamo andarci due anni fa, in tournèe, invece niente perché non si trovava un albergo. Magari lì è tutto così bello che gli alberghi non esistono e si dorme su una sdraio o su un'amaca.
A Treviso giocava Edwards Lavulo, uno dei cinquanta figli del re di Tonga. Numero otto. Simpatico. Adesso è a Canberra, ci ha detto che verrà a vedere la partita, e si è scusato se stavolta non farà il tifo per noi.
Però la prossima volta sì, ha aggiunto. Gli altri giocatori hanno nomi impossibili.
A parte un certo Ma'asi, che dev'essere mezzo aquilano e neanche tanto lontano parente del nostro Masi.
Strano ma vero, il tongano è una lingua, in un certo senso, simile a quelle latine. Innanzitutto per via dell'alfabeto, con le consonanti e le vocali, che si leggono come si scrivono.
Tant'è vero che tongani e figiani, appena arrivano in Italia, cominciano a parlare l'italiano.
Che poi, se ci pensi, è normale. Pensa se invece cominciassero a parlare tedesco o francese.
A giudicare dalle facce dei giocatori, gli uomini non sono molto attraenti. Quanto alle donne, non saprei dire.
Ma brutte come le figiane, è dura.

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